Sopra: Scenerio di Saint Laurent Fall 2020 a Parigi. Sotto: un look di Balenciaga Autunno/Inverno 2020 a Parigi.

Saint Laurent e Balenciaga sono due delle aziende sotto l’egida del colosso del lusso Kering.

Un look della collezione Autunno/Inverno 2020 di Richard Malone a Londra.

Prospettiva sull’Agricoltura Rigenerativa & Riciclo Tessile

La sostenibilità sembra essere divenuta, al giorno d’oggi, una prerogativa inesorabile per un brand, affinché possa sopravvivere nella dura competizione di mercato. Essa riguarda diverse pratiche da adottare, tra cui produrre collezioni più contenute, fare upcycling usando vecchi capi, usare tessuti deadstock, ridurre lo spreco di acqua e le emissioni di CO2; sono tutte pratiche che hanno visto un incremento esponenziale nell’industria della moda negli ultimi anni, incremento che è presumibile che ingrani una marcia ancora più sostenuta, nell’era post-pandemica. Ma fino a che punto tali pratiche sono davvero utili per il nostro pianeta?
 
Ne parla con Vogue Aras Baskauskas, CEO del brand Christy Dawn, sostenendo che le attuali pratiche sostenibili più comunemente adottate servono solo ad attenuare il problema e a limitare i danni, non ad offrire una reale soluzione, che possa essere benefica a lungo termine. 
Gran parte dei disastri ambientali dovuti all’emergenza climatica sono stati causati dalla nostra relazione unilaterale con il nostro pianeta. “Abbiamo dimenticato che siamo parte della natura, e per questo motivo, abbiamo estratto dalla terra senza rendere nulla in cambio. Prendiamo e non restituiamo”, ha spiegato Baskauskas. La soluzione consisterebbe, quindi, nel rigenerare ciò che è stato danneggiato o rimosso, per poter raggiungere un perfetto equilibrio nello scambio di risorse con la terra; e questo sarebbe assolutamente fattibile con l'”agricoltura rigenerativa“.
Ma che cosa significa esattamente?
 
AGRICOLTURA RIGENERATIVA
 
L’agricoltura rigenerativa è una nuova forma di coltivazione organica e sostenibile, che non solo evita l’utilizzo di sostanze chimiche e pesticidi, ma alimenta e rafforza il suolo, le piante e tutto l’ambiente naturale circostante, grazie ad una maggiore biodiversità. Diversamente dalle pratiche agricole intensive convenzionali, che dividono centinaia di acri di terreno in singole colture (ad esempio: cotone) e fanno leva su pesticidi o gravi dissodamenti per mantenerle rigogliose, l’Agricoltura Rigenerativa consiste invece di acri di differenti colture posizionate in modo strategico per aiutarsi l’un l’altra a crescere e fiorire; insetti utili vengono impiegati al posto dei prodotti chimici – che è risaputo diminuiscano le abilità della pianta ad assorbire le sostanze nutritive-, e gli animali allevati forniscono i nutrienti utili alla pianta per crescere più sana; è esattamente ciò che succede in natura.
 
Queste pratiche agricole sarebbero quindi fondamentali per avviare un ciclo virtuoso, in cui le piante, attraverso il processo della fotosintesi, restituirebbero al suolo l’anidride carbonica intrappolata nell’atmosfera, che sta attualmente riscaldando il pianeta. Ciò non sarebbe possibile con l’agricoltura convenzionale perchè, essendo intensiva e divisa in monocolture, ha portato, su larga scala, ad aree di terreno desolate e aride, incapaci di assorbire anidride carbonica in modo sufficiente.
L’impatto che l’agricoltura rigenerativa avrebbe sul suolo sarebbe estremamente positivo, generando un terreno ricco in sostanze nutritive, e di conseguenza colture più robuste, stili di vita più sani per i contadini, nonché prodotti finali di qualità superiore per il consumatore finale.
In questo modo, se tutta l’agricoltura industrializzata fosse convertita in rigenerativa, tutto il carbonio dell’atmosfera verrebbe sequestrato e il problema del riscaldamento globale si risolverebbe da sé.
 
Unico aspetto negativo: le coltivazioni rigenerative sono un grande investimento per l’industria in termini sia economici sia tempistici – occorrono diversi anni perchè un’azienda agricola diventi rigenerativa. Si tratta di una logica che si scontra con gli schemi tradizionali della moda, che incentivano pratiche di produzione veloci ed a minor dispendio economico possibile. Nonostante ciò, molte aziende hanno compreso il potenziale che tale investimento possa offrire a lungo termine, essendo un bene per il pianeta e anche capace di offrire un prodotto all’altezza delle aspettative di un nuovo consumatore post-COVID-19 – più consapevole e più propenso ad acquistare meno e a valutare maggiormente il valore di un prodotto in sé – in termini etici, sostenibili e di rapporto qualità-prezzo.
 
Diversi brand hanno già colto la sfida nell’investire in questo tipo di agricoltura, mettendosi in società con centinaia di contadini, molti dei quali si trovano in India: il brand Christy Dawn di Baskauskas, innanzitutto, ma anche Patagonia, Richard Malone, Eileen Fisher, e niente meno che il colosso del lusso Kering. Dopo essersi prefissato l’obiettivo di diminuire il proprio impatto ambientale del 40% entro il 2025, quest’ultimo ha infatti annunciato la sua collaborazione con Savory Institute, una ONG che sostiene una gestione olistica dei terreni e delle pratiche rigenerative. La finalità di questa partnership è quella di identificare e sviluppare una rete di aziende agricole di cui Kering possa usufruire per procurarsi pellami e fibre naturali quali cotone, cashmere e lana.
 
L’agricoltura rigenerativa non è l’unica modalità per ottenere della materia prima realmente sostenibile: il riciclo tessile è anch’esso un processo utile che può aiutare nella diminuzione drastica delle pratiche di produzione inquinanti a monte della filiera tessile.
 
RICICLO TESSILE
 
A differenza dell’economia lineare, che parte dalla materia prima vergine e termina con lo smaltimento del prodotto dopo il suo ciclo di vita, l’economia circolare prevede invece il recupero dei prodotti di scarto e il loro successivo riutilizzo come nuova materia prima e la loro re-introduzione nel ciclo di produzione.
 
I prodotti di scarto sono ottenibili sia durante i processi di produzione (come sottoprodotti pre-consumer), sia a partire dal prodotto dismesso (come sottoprodotti post-consumer), ossia l’intero capo di abbigliamento viene smontato nelle sue singole componenti di diversi materiali; esattamente quello che accade nella raccolta differenziata domestica.
 
Al fine di incoraggiare i consumatori alle pratiche di riciclaggio, alcune aziende di moda, come Patagonia, &Other Stories, Zara, H&M, Intimissimi e North Face, tra le altre, hanno lanciato un programma di raccolta di capi dismessi: basta consegnare un sacchetto di vecchi vestiti (di qualunque marca e di qualunque qualità) o tessuti da arredamento in loco presso i loro punti vendita, e potrai ritirare piccoli importi in denaro o buoni acquisto.
 
Il riciclo può avvenire a livello chimico (dissolvendo i tessuti nei loro materiali di partenza) oppure a livello fisico; malgrado il procedimento chimico non sia propriamente eco-compatibile, è adatto per i tessuti misti, e tale processo, attraverso la depolimerizzazione, permette che le differenti componenti – naturali e sintetiche – vengano separate.
Il riciclo fisico è eco-friendly e maggiormente consigliato, ma richiede che i tessuti siano del tutto omogenei e monofibra. A questo fine, le tecnologie più innovative sono all’opera per facilitare il disassemblaggio dei capi. Un nuovo filo da cucito, ideato dalla tecnologia Wear2, èun’innovazione incredibile sotto questo aspetto: sembra un normale filato, ed è ugualmente robusto, ma se sottoposto ad uno specifico trattamento a microonde, alla fine del ciclo di vita del capo, diventa facilmente distruttibile, di modo che cerniere, bottoni, fodere e qualunque altra componente del capo possano essere rimossi con estrema facilità senza danneggiare il tessuto circostante (http://www.niri.technology/wear-2/). Una volta che le diverse componenti sono divise e raccolte in appositi contenitori, vengono convertite in nuovi filati, nuovi tessuti o materiali di riempimento utili in disparati ambiti.
 
Risulta quindi indispensabile non solo educare e sensibilizzare i consumatori sui vantaggi delle pratiche da riciclo, ma anche incoraggiare le aziende ad avviare collaborazioni con le infrastrutture di riciclo.
Dal “rapporto di economia circolare in Italia 2020” emerge che il tasso di utilizzo di economia circolare in Italia nel 2017 è pari al 17,7%, al 5°posto nell’UE.
Nel 2017, in Italia, il bilancio dell’import risulta essere oltre il doppio rispetto all’export: questo significa che da un lato, esiste una reale domanda, ma dall’altro, il mercato italiano non è del tutto in grado di soddisfare da solo questa domanda attraverso l’adeguata valorizzazione dei materiali di scarto.
Oggi in Italia 18 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e speciali finiscono in discarica; al fine di attenuare questa pratica, esiste una vera necessità di rafforzare le infrastrutture volte alla rivalutazione delle nostre risorse interne.

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